Il momento più alto della composizione geminiana si realizzò con la pubblicazione di due raccolte di Concerti Grossi, l’op. II e III, nel 1732, che ebbero un clamoroso successo. Addirittura Charles Burney, che fu il critico più irriducibile del lucchese, disprezzandone sia lo stile musicale che la personalità, riconobbe che i concerti affermassero le sue caratteristiche, e lo ponessero alla testa di tutti i maestri allora viventi, in questo genere di composizioni. Con essi la sua fama crebbe: Hawkins, appassionato sostenitore di Geminiani, lo definì come “uno dei musicisti più eccellenti apparsi in questi ultimi anni”; Jonh Morgan, compositore di una certa fama nell’Inghilterra dell’epoca, affermò: « io non credo ciecamente in nessun altra divinità »; e per Charles Avison Geminiani era « il massimo faro della musica strumentale ».
Geminiani mise così in seria discussione la supremazia concertistica di Haendel a Londra.
La reazione del sassone si concretizzò nella primavera del 1734 quando uscì la sua prima raccolta di composizioni orchestrali, i Concerti Grossi op. 3, che ottennero altrettanto successo. In ogni modo i concerti dell’op.3 divennero i lavori di Geminiani più noti in Inghilterra, eseguiti fino all’inizio dell’800, persino raccomandati per lo studio dai maestri di composizione.
In genere, lo stile di questi concerti si contraddistingue per una tessitura piuttosto alta e per la presenza di passaggi virtuosistici di considerevole difficoltà tecnica. Quetsi concerti, ed anche quelli appartenenti all’op.2, si differenziano dai concerti di Haendel e da quelli del modello ispiratore per entrambi, Corelli, per l’inserimento, fra i solisti del concertino, di un quarto strumento, la viola, con la conseguente realizzazione di un vero e proprio quartetto d’archi: la viola, intraprendendo una parte indipendente, amplia le risorse armoniche del concertino, arricchendone il timbro e svolgendo talvolta una funzione melodica non indifferente.
Va detto che il primo a sperimentare questo procedimento non fu Geminiani, ma Giuseppe Valentini, con la sua raccolta di concerti grossi op. VII del 1710, che il lucchese probabilmente conosceva. Geminiani fu autore di un’altra serie di Concerti Grossi, l’op.6 del 1746, dedicata “alla celebre Accademia della buona ed antica musica”, quell’Academy of Ancient Music di cui era membro fondatore. Questi sei concerti si caratterizzano rispetto ai precedenti per una sonorità più densa, un arricchimento strutturale non convenzionale delle parti, ottenuto con l’aggiunta nella strumentazione di un fagotto e due flauti, e soprattutto con l’inserimento di un’altra viola, stavolta nel ripieno, che si confronta con quella del concertino: questo è l’importante innovazione generalmente riconosciuta al maestro lucchese, che influenzò da quel momento in avanti il genere del concerto grosso. L’operazione però non sortì l’effetto sperato: il pubblico non gradì affatto i concerti dell’op. VII, ritenendoli “laboured, difficult, and fantastical”, e tale insuccesso fece riemergere certe critiche sull’effettivo valore di Geminiani: divenne così materia di discussione, ben al di là della sua morte, se egli fosse “as much innovator as imitator”; se il suo stile “si fosse sviluppato notevolmente in confronto a quello di Corelli diventando espressione viva e moderna”; se egli era un compositore “estremamente severo e preciso” ; se era solamente uno di quei compositori la cui pur ammirevole originalità era oscurata da tangibili difetti.
Ma nemmeno Burney poté rifiutarsi di definirlo “un grande maestro dell’armonia”, e in una lettera del 1781 ammise che “Haendel, Geminiani e Corelli erano i soli dei della mia gioventù”.
Forse un po’ deluso da certe critiche, Geminiani decise di prendersi una vacanza dal pubblico londinese, che “stimava più la mano che la testa, più l’esecuzione che la composizione”, e viaggiò in Irlanda, nei Paesi Bassi e a Parigi, dove i suoi concerti grossi erano particolarmente apprezzati ed eseguiti di frequente all’apertura dei Concert Spirituel.
Degna di nota di quel periodo, è la musica scritta da Geminiani per lo spettacolo teatrale La Forest Enchantée, dell’architetto e “regista” Giovanni Niccolò Servandoni (1695-1766), rappresentato a Parigi nel 1754 al “gran Théatre du Palais des Thullleries”.
L’azione coreografica, ispirata al XIII canto della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, venne tradotta in musica da Geminiani in uno stile assimilabile al concerto grosso, come se il compositore, ormai anziano, non fosse in grado di affrancarsi dal genere che meglio conosceva affrontando per la prima volta quello teatrale.
Comunque sia, lo spettacolo, nonostante la profusione di effetti sceneci ottenuti con macchinari, effetti prospettici, pittorici e illuminotecnici, fu un insuccesso, e non si sa in che misura vi contribuì la musica, visti alcuni commenti poco lusinghieri che ne seguirono: nella recensione di Friedrich Melchior von Grimm, del 15 aprile 1754, si legge che la pantomima “è accompagnata da una brutta musica composta da Geminiani che dovrebbe esprimere le differenti azioni”. Due anni più tardi Geminiani ne curò la pubblicazione in una versione da concerto, che però non ebbe successo, come del resto tutte le composizioni successive all’op. III.
Geminiani non pareva mai soddisfatto del risultato ottenuti e si prodigava in continue rielaborazioni e trascrizioni di proprie musiche, tanto che Veracini non esitò a catalogarlo trai i “rifriggitori”. Frutto di uno di questi processi fu la revisione del 1755 dei suoi vecchi concerti dell’opp. II e III, con l’aggiunta di una seconda viola nel ripieno e l’eliminazione di quella solista del concertino.
Burney ci racconta come, per queste trascrizioni, egli stesso prestò a Geminiani la sua copia dell’edizione del 1732, in quanto, incredibilmente, il maestro non possedeva più l’originale, ma sembra che il lucchese non gli restituì mai il manoscritto… forse proprio a causa di questo episodio, Burney gli riservò nei suoi scritti parole ben poco lusinghiere, attribuendogli “doppiezza” e “volontà d’ingannare”.