Per descrivere chi è stato questo grande pianista ci affidiamo ad un articolo scritto il giorno successivo la sua morte.
E’ morto a 82 anni il grande musicista russo che “rileggeva” i classici
Addio a Richter, lo sciamano del pianoforte E’ morto ieri a 82 anni, nella sua dacia vicino a Mosca, il grande pianista Svjatoslav Richter, colpito da un improvviso attacco cardiaco. Per lui, funerali di Stato. Negli ultimi anni della sua prodigiosa carriera, Svjatoslav Richter aveva inventato uno strano cerimoniale: si presentava al proscenio a passi affrettati, una maschera infelice sul volto, si inchinava con la compostezza di un diplomatico che presenzi a un funerale di Stato, metteva lo spartito sul leggio e accendeva una minuscola lampada vicino al pianoforte. Suonava così, in un buio spettrale; rifiutava il solito show dei concerti eseguiti a memoria. La suggestione era tale che i suoni sprigionati dalla tastiera parevano salire da un fondaco di ombrose memorie. Gli autori più noti, Bach, Beethoven, Chopin, il suo incredibile Ravel congelato in una smorfia crudele, erano “riletti”, nel senso più preciso della parola, come se il pentagramma recasse un messaggio d’oltretomba. Non sempre Richter era in grande serata: fra i maggiori pianisti del nostro secolo egli è stato forse il più discontinuo; ma quando qualcosa di ignotissimo, uno specie di turbamento dell’anima, gli si muoveva dentro, il pianoforte sembrava il marmo da scalpellare, perchè si rivelasse la statua invisibile contenuta al suo interno. Ne venivano esecuzioni dotate di un senso della grandezza assoluto, quasi intimidatorio: Beethoven o Brahms erano, d’improvviso, immani erme evocate nel rito della sala buia. Questa dimensione grandeggiante del pianismo di Richter si esprimeva innanzi tutto in uno strapotere tecnico quale pochi hanno pareggiato. Egli sbagliava molte note, e ciò non aveva la minima importanza: il modo di scolpire la frase, di far esplodere l’avorio della tastiera o di far schizzare le corde dal telaio del nero strumento, era letteralmente incredibile. Le prime sue apparizioni in Occidente furono sconvolgenti: Richter non possedeva lo charme, la leggerezza, il fruscio di seta, la malinconia dell’attimo che riverberavano con Moiseivitch, Cherkassky, Friedman, Hofmann, spesso con Horowitz, ma mostrava una forza gigantesca, tale da schiacciare un brano “spaccadita” come la “Toccata” di Schumann in una macchina d’acciaio. Di grandi virtuosi questa seconda metà del secolo è stata colma: ciò che rendeva unico Richter era la monumentalità della Forma ch’egli di volta in volta creava o distruggeva. Poteva suonare le “Variazioni Diabelli” di Beethoven serrandole in una coerenza strutturale senza respiro, o affrontare il “Concerto n. 2” di Brahms (di cui restano diversi dischi: il più grande è quello realizzato con Evgenij Mravinskij) e frantumarlo in una “danse macabre” visionaria e fantasmagorica: alla fine dell’esecuzione scorgevi una cattedrale in rovina sotto un cielo sconvolto, come nelle celebri tele di Caspar David Friedrich. Se mai c’e’ stato un pianista capace di portare alle conseguenze estreme l’impulso “faustiano” (secondo la definizione di Spengler) all’irrazionale, a uno spietato anti-umanesimo, questi era Svjatoslav Richter, che non ha caso si definiva “nato in Russia da famiglia tedesca”. Di russo, credo che Richter mostrasse soprattutto una concezione disperata del destino: chi abbia ascoltato la “Quinta Sonata” di Skrjabin, o certi Preludi di Rachmaninov, sotto le sue dita, sa che non esistono limiti alla soglia del dolore. Era come se quei brani nascessero dai segni della pagina scritta ma si dilatassero fino alla dissoluzione di tutto, a un suono o rumore livido e malato: a noi pareva di giungere all'”Isola dei morti” dipinta da Boecklin e messa in musica da Rachmaninov: alla dimora fredda del nulla. Ma la stessa impressione creavano lo Schubert di Richter o certo suo Chopin decomposto, o il Liszt della “Sonata in Si minore”. Quest’uomo timido, solitario, coltissimo e raffinatissimo (uno dei concerti italiani indimenticabili si tenne al Vittoriale, in memoria di Eleonora Duse da lui adorata) ha frequentato il sublime, ne ha trasmessa una risonanza sconfinata, ne ha testimoniata la confidenza con la morte: che, per ogni artista passato attraverso il patto con il diavolo, è l’unica vera promessa.
Tratto dal Corriere della Sera del 2 agosto 1997
e scritto da Francesco Colombo.